COSA VUOL DIRE GUARIRE?
“Dottoressa io voglio guarire!”
Questa esclamazione mi fu rivolta qualche anno fa da una paziente. In quel momento mi fermai, colpita dalla forza e immediatezza di queste parole. Rimasi in ascolto, con tutta la mia persona, spogliandomi del ruolo che rivestivo in quel momento. C’erano tanti significati, più domande, molte aspettative. Tante sfumature che probabilmente non colsi subito. Mi chiesi cosa volesse dire, per questa persona, guarire. Lei non mi stava chiedendo se poteva guarire, mi stava comunicando che voleva farlo. Forse semplicemente non sapeva (e non sapevamo) ancora come poterlo fare insieme.
Nel mio lavoro mi chiedo costantemente cosa significhi guarire e se sia possibile guarire. Il termine guarigione è intriso di significati culturali, sociali e personali, ma ha alla radice il bisogno e desiderio umanamente condiviso di “voler stare bene”.
Non è mai semplice rispondere.
Sarebbe come chiedere a un medico se assumendo il farmaco prescritto riuscirò a guarire, perché l’80% delle volte a tale domanda seguirà una risposta semplice, sì o no, in base ai casi. Ma cosa succede per quel restante 20%? La risposta potrebbe essere “Dipende”. Ma esattamente dipende da cosa? Potrebbe dipendere dalla nostra maggiore o minore sensibilità al farmaco, oppure dal fatto di avere in concomitanza altre patologie, oppure, ancora, dal fatto che quel farmaco non ci permette di “cancellare” una malattia, ma di gestirla al meglio.
Quando penso all’azione di un farmaco e all’effetto che questo può avere sul sintomo, la mia mente si sposta automaticamente sul significato che può avere il sintomo stesso. In medicina possiamo considerarlo come una comunicazione del corpo che qualcosa al suo interno non sta funzionando al meglio. È utile al medico per capire come intervenire sul problema che sta al di sotto del sintomo. E per la mente?
Esso ha lo stesso significato, ma porta con sé un valore aggiunto. Attraverso il sintomo la persona comunica all’esterno qualcosa che ha le sue radici in un vissuto interno, affettivo, cognitivo, relazionale, personale. Ma esso è anche già una risposta al disagio interno.
Quando la mia paziente mi disse che voleva guarire, già di per sé aveva dato inizio a questo processo. Perché il sintomo, nonostante tutto, ha bisogno di essere compreso in quanto compromesso che ci indica la via da intraprendere. Non siamo deboli o fragili se mostriamo un sintomo, ma questo, anzi, è il modo che abbiamo trovato per comunicare (a noi stessi e all’esterno) un nostro disagio interno.
Il sintomo è il nostro personale modo di gestire questo vissuto di sofferenza interna. È già l’inizio di un processo di autoguarigione.
Questo vuol dire che dobbiamo tenerci il sintomo?
No, sarebbe un paradosso, ma esso ci può comunicare cosa sta sotto, qual è il vero bisogno che, una volta colto e accolto, può portarci a stare meglio.
Quindi, infine, si può guarire? Certamente è possibile, ma non significa cancellare una sofferenza o modificare il passato. Significa piuttosto essere disposti ad accoglierla e a modificare, se non il nostro passato, il nostro modo di vedere le cose passate.
Nel momento stesso in cui ci chiediamo se possiamo guarire abbiamo intrapreso questo percorso, perché ci stiamo mettendo in discussione e stiamo imparando ad accogliere la nostra sofferenza, a scendere a patti con essa, non come qualcosa di estraneo, ma come qualcosa che può in realtà aiutarci a capire come poter stare meglio con noi stessi e con gli altri.